L’«Esquisse du jugement universel» e i «Giornali»

Nel maggio del 1772 l’Alfieri ritornava a Torino e benché nella Vita ripeteva come «nessun buon frutto» avesse riportato da quei «cinque anni di viaggi» egli vi ammetteva però che gli si «erano con tutto ciò assai allargate le idee, e rettificato non poco il pensare»[1].

Dunque questo Alfieri ventitreenne, ricco di tante esperienze e intimamente tanto superiore alla media cultura e sensibilità del suo tempo, è pure diviso in un singolare squilibrio fra aspirazioni e concrete possibilità e un mondo di sentimenti poetici ancora informe e confuso. Il giovane poteva ancora disperdersi in una vita incerta fra solitudine e socievolezza, cercare soddisfazioni di vanità e di relazioni sensuali (il terzo intoppo amoroso con lo «sconcio» amore per la Turinetti Falletti, che diverrà poi base autobiografica della prima tragedia), avvicinarsi e reagire ad una società frivola e angusta.

In quell’ambiente limitato e piuttosto provinciale, egli trovava un gruppo di suoi coetanei con i quali costituiva un’«adunanza» che teneva le sue sessioni in casa dell’Alfieri e che era tenuta insieme da ambizioni letterarie, da giovanile bisogno di divertimento e da una certa comunanza, in quel momento, di idee libertine e spregiudicate; nonché da legami massonici piú tardi da lui violentemente rifiutati[2].

Fra quei giovani l’Alfieri ricorda di avere letto un suo scritto in francese[3], che egli volle conservare come «piccolo saggio» del suo «poter mettere in carta» le sue idee e «di potere, nel farlo, un qualche diletto recare ad altrui»[4].

Si trattava di quell’Esquisse du Jugement Universel del dicembre 1773 che nella Vita è ricordato anche perché corrispondente a quell’inclinazione satirica che l’Alfieri riconosceva come originalmente sua ed istintiva, anche se la considerava un momento laterale e inferiore rispetto alle tendenze piú forti e centrali del suo animo appassionato ed eroico.

L’Esquisse, pur nel suo carattere di esercizio condotto nel ricordo di letture varie e nell’intonazione di una parodia satirica voltairiana, ha una sua generale vivacità di movimento, una sua ambizione di struttura, di articolazione e di varietà particolarmente evidenti nella seconda e terza sessione, piú movimentate della prima, che è piú monotona ma anche piú ricca di elementi interessanti (al di là delle caricature allusive a precisi personaggi della corte torinese) per il recupero dei motivi piú schiettamente alfieriani. In questa prima sessione, dove il giudizio è condotto dal Padre (nella seconda e nella terza il giudizio è condotto rispettivamente dal Figlio e dalla Madonna), l’Alfieri trattava infatti un tema piú interessante per lui, rivolgeva la sua satira ad una categoria di persone vissute in una condizione piú adatta ad eccitare i suoi umori e il suo sdegno: i giudicati di quella prima giornata sono infatti re, ministri, cortigiani, militari, nobili; sicché, in questa prospettiva etico-politica, un mondo corrotto e meschino, senza passioni e senza ideali, offriva ben altra materia di satira e di reazioni amare che non quello piú generico delle donne (trattato nella seconda sessione), che si risolve in facili e convenzionali motivi misogini. Qui invece sotto lo scherzo e la caricatura si esprimeva una reazione totale alla corte torinese e, piú ancora, lo sdegno per una vita che si contrapponeva – a diversi gradi di profondità – al suo ideale eroico plutarchiano, alla sua irrequieta aspirazione ad un mondo piú alto e libero.

Nelle forme brillanti di questa prosa s’intravvedono cosí motivi di satira piú amara e profonda, tant’è vero che sarà proprio quest’esercizio di analisi ironica che permetterà all’Alfieri, subito dopo l’Esquisse, nei Giornali, di passare ad una definizione del mondo inferiore di una umanità «senza cuore»[5] e senza vere passioni, a quella ricerca interiore di se stesso, a quello scavo impaziente e spietato dentro di sé che condurrà presto il poeta a riconoscere nella propria scontentezza il bisogno di un impiego assoluto della propria eccezionale energia, a superare questo stadio preparatorio, incerto fra moda e temperamento, nella decisione di una vita severa e al servizio di una propria alta missione, nella scelta della poesia e della tragedia come espressione degli strati piú profondi del proprio animo.

Nella prima sessione dell’Esquisse l’Alfieri delineò anche un ritratto di se stesso entro le linee ironiche di un’anima che si confessa a Dio:

Seigneur. Vous m’avez privé de la vie parce que vous m’avez cru méchant, mais malgré la couleur de mes cheveux, je vous assure que je ne le fus pas. J’aimais beaucoup à critiquer les actions des hommes, j’y mêlais souvent du fiel, mais, ce n’estoit point les hommes que je détestois, c’estoit leurs vices, ou leurs ridicules. Je n’estois pourtant pas vertueux moi même, il s’en falloit de beaucoup, mais je sentois tout le prix, attaché à la vertu.

J’ai été toujours, un tissu d’inconséquences, et j’ai réuni dans mon caracthère tous les contrastes possibles. J’ai fait des longs voyages, dans les-quels j’échangeois mes propres ridicules, avec des ridicules étrangers, je reconçois à quelques préjugez, pour en investir d’autres. J’eus le deffaut d’aprouver rarement, ce qui ce passoit autour de moi, et un penchant beaucoup plus fort, pour blâmer, que pour applaudir. Je ne m’employois à rien, un amour propre démesuré me fit croire au dessus de tous les emplois, si j’avois pourtant pensé juste, j’aurois vu, qu’en tout pays, et en tout tems, il est libre è chacun d’en exercer le plus noble, qui est d’être utile à l’humanité. J’ai beaucoup parlé sur ce même grand ton, dont j’ai l’honneur de parler à Votre Majesté, mais le fait est, que, je n’ai jamais été utile à personne, et qu’en déplorant l’aveuglement de ceux qui perdent leur tems, j’ai toujours flotté au gré de mes passions, et très mal employé le mien.[6]

Questo autoritratto, nell’intonazione di divertimento e di satira applicata anche a se stesso con gusto autoironico e un certo snobistico compiacimento di una spregiudicatezza e di una superiorità che non vuole risparmiare la propria persona nei suoi difetti e nelle sue vanità, è molto importante per l’acuta coscienza del giovane Alfieri della propria situazione in quel periodo. Esso vale soprattutto come acuta diagnosi di una situazione di crisi che supera al fondo il compiacimento del bel esprit per un’autocaricatura cosí spregiudicata ed efficace (nessun’altra delle numerose descrizioni di anime al giudizio è cosí completa e precisa) e fa sentire nel giovane scrittore apprendista una matura capacità di autocritica e una volontà di trarre conseguenze da tale introspezione e da tale disagio interiore, per quanto presentata in tono di divertimento e con concessioni a ideali meno suoi e piú generici.

Questo senso di crisi, di contrasto fra una vita oziosa e abbandonata alle passioni e un ideale ancora confuso di vita seria e attiva, fra la sensazione della propria superiorità e lo spettacolo delle proprie debolezze, vibra in questa pagina che serve bene al passaggio dall’Esquisse ai Giornali, dalla satira del mondo della corte al diario autobiografico, all’approfondimento della descrizione della propria crisi interiore.

Occorre cosí valutare i Giornali con la contemporanea coscienza del loro significato piú intimo e profondo nello sviluppo della vita interiore alfieriana (in una fase di grande importanza e piú complessa di quanto comunemente è creduto) e, insieme, della loro natura non solo documentaria, ma letteraria e del loro legame con forme letterarie e con tendenze di sensibilità e di costume della civiltà settecentesca, a cui il giovane Alfieri in parte ancora aderiva e di cui si serviva per esprimere, in un incontro inevitabile di moda e di originalità, i motivi piú veri della sua natura e della sua crisi.

Entro il disegno letterario e sotto gli strati di stile alla moda (fra il modulo analitico-ironico di tipo voltairiano, con i suoi effetti di brio sarcastico e di rapidità efficace, e il modulo romanzesco-patetico di tipo prevostiano[7]), in queste pagine di diario intimo vivono motivi schiettamente alfieriani e validi a confortare concretamente (seppure con tutta la cautela imposta dalla maggiore coscienza della loro natura complessa) l’immagine di un Alfieri che, mentre cerca una provvisoria soddisfazione di scrittore sulla scorta delle sue letture francesi e con ricerche di assimilazione personale di modelli stilistici adatti alla sua volontà di espressione, indaga dentro di sé, critica lucidamente le sue debolezze, individua i propri limiti e le proprie reazioni ad essi in forza di una coscienza crescente della propria personalità e del proprio valore.

La prima parte del diario è scritta in francese, tra la fine del novembre 1774 e il 19 febbraio 1775. Quando l’Alfieri riprese a distanza di due anni i Giornali e decise di proseguirli in italiano (tra il 17 aprile e il 3 giugno 1777), egli era ormai passato, dal periodo di un noviziato in prosa francese e dal tentativo di approfondire nel diario la conoscenza di se stesso e la natura della propria crisi, ad un periodo piú maturo, in cui la vocazione alla poesia ha risolto la crisi nel suo aspetto piú urgente. Un legame permane fra le due parti nella generale impostazione di autocritica e di autoironia, ma basterebbe notare nello stesso linguaggio in direzione ironica, e nelle possibilità piú libere offertegli dall’italiano, la diversa sicurezza di un’impronta personale anche nei piú piccoli particolari («la vanitaduzza», i «venticelli» delle passioni piú frivole, la «dotta Frine», ecc.) per sentire come l’Alfieri avesse ormai superato la fase di un compromesso fra sentimenti suoi non in tutto chiariti e provvisorie forme espressive mutuate dalla prosa francese, e si muovesse in maniera tanto piú sicura e libera avendo chiarito il senso della propria vita e precisato il valore di un esercizio di stile e di autocritica che nella prima parte appare piú incerto nei propri scopi. Ora, presente in ogni pagina è l’aspirazione «alla fama letteraria, oggetto costante di ogni mio desiderio»[8], la volontà di supplire alla formazione giovanile inadeguata, l’attenzione ai problemi di cultura con una nuova sicurezza delle proprie qualità e delle proprie inclinazioni; e se non mancano in queste pagine, cosí ricche e vive, i riflessi di una passata abitudine di dissipazione e di ozio, a queste esitazioni risponde sempre la chiara consapevolezza del poeta di avere ormai ben in pugno la propria vita e di poter vincere l’ozio e i «venticelli» delle «vanitaduzze».

E nella generale maggiore energia di questa seconda parte, nella sua maggiore chiarezza di destinazione morale ed artistica, l’esame introspettivo fa affiorare motivi alfieriani centrali e potenti: l’ansia della grandezza e la paura della mediocrità, e soprattutto quella attenzione alla morte che è tanto significativa nella tensione alfieriana a paragoni e prove estreme su cui misurare la propria costanza, la propria altezza d’animo, e che è al centro di due importanti brani, certo i piú alti di questo diario.

Uno ricorda il pericolo corso durante il viaggio per mare verso la Toscana:

[…] era il tempo fierissimo, il vento impetuoso e contrario, e la nave ripiena di frati, e d’altra gente vile che si raccomandava a Dio. Io veramente qui non credei il pericolo, e non era cosí evidente come lo voleano far credere: però essendo moltissimo mareggiato, non avea neppure comodo d’aver tutta la paura necessaria. Rincresceami sommamente di morire prima d’aver acquistato fama; quanto alla vita futura, non mi mettea punto timore, non sapendo che crederne, ma sapendo di certo che non ho mai fatto male a nissuno.[9]

Dove, oltre all’evidente maturazione della prosa, cosí energica e diversa dalle forme piú superficiali e brillanti dell’Esquisse e tanto piú adatta all’energia dell’animo alfieriano, si deve notare insieme l’aspirazione sempre piú forte alla gloria, l’atteggiamento rispetto al problema di una ipotetica vita futura e il misurarsi, nel pensiero della morte, con la gente comune incapace di eroismo e di dignità nella prova suprema della vita.

E questo motivo di contemplazione della morte con l’ansia di non smentire in quella la propria vita e anzi di trovarvi la prova massima della propria vocazione eroica, anima l’altro passo (26 aprile), anche piú intenso e complesso:

Volli assistere al funesto spettacolo d’un soldato disertore che si passava per l’armi. Era quest’infelice saltato il giorno dianzi dalle mura, e rottesi le reni. Non perdo mai occasione d’imparare a morire: il piú gran timore ch’io abbia della morte, è di temerla: non passa giorno in cui non vi pensi; pure non so davvero se la sopporterò da eroe, o da buon cattolico, cioè da vile: bisogna esservi per saperlo. Quel che mi pare è che variando le circostanze d’età, di salute, d’accidenti anche momentanei, la mi parrebbe a vicenda, dura, men dura, forse anche talvolta grata, ed altre durissima. M’arrabbia il vedere nella natura umana una tenacità ad amar codesta prigion corporea, tanto piú quanto vai meno. In mio pensiero, che non ad altro è volto ch’alla gloria, rifaccio spesso il sistema di mia vita, e penso ch’a quarantacinque anni non voglio piú scrivere: godere bensí della fama che sarommi procacciata in realtà, o in idea, ed attendere soltanto a morire. Temo una sola cosa: che avanzando verso la meta giudiziosamente prefissami, non la allontani sempre piú, e ch’agli anni quarantacinque non pensi se non a vivere; e forse a sciccherar carta. Per quanto mi sforzi a credere e far credere ch’io sia diverso dal comune degli uomini, tremo d’essere simigliantissimo.[10]

Quanti motivi alfieriani si raccolgono intorno all’immaginazione della morte! L’episodio della fucilazione non conduce a riflessioni di pietà, a indugi sentimentali o descrittivi, ma nella tensione personale quell’episodio è un pretesto a quell’educazione alla morte eroica che sarà caratteristica di tutti i grandi personaggi delle tragedie, sempre timorosi di non essere all’altezza della prova suprema. La morte è sentita come estremo momento agonistico dell’individuo eroico nella sua lotta di affermazione della propria coerenza e della propria grandezza contro ogni limite di possibile viltà, contro ogni mortificante sottomissione a consuetudini ritenute non eroiche, contro ogni accettazione di una sorte che l’Alfieri oscuramente sente oppressiva e tirannica nello stesso ordine universale. La morte eroica e virile è cosí l’ultima protesta dell’individuo, ultima affermazione della sua dignità contro un ordine che lo limita e lo carica di debolezza, di timori, di istinti mediocri. Cosí si spiega anche la contrapposizione fra «eroe» e «buon cattolico», cioè «vile», che si ricollega alla contrapposizione del piú tardo sonetto autoritratto («Uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai»[11]) e alla qualifica di vile a quella gente che, nell’episodio prima citato, «si raccomandava a Dio». E d’altra parte si noti in quella pagina come questa fede eroica (con il suo appoggio plutarchiano e montaigniano) perda ogni carattere retorico nel dubbio umanissimo circa l’effettiva attuazione di tale sua volontà, circa la sua paura di essere «simigliantissimo» al «comune degli uomini», e nel significativo moto di sdegno contro l’istinto della natura umana ad «amar codesta prigion corporea»: che è poi ancora un’altra energica variazione del fondamentale sentimento alfieriano della limitatezza della condizione naturale degli uomini rispetto ai loro desideri infiniti e alla loro vocazione di eroismo e di grandezza.

L’Alfieri che scriveva questa pagina aveva già superato in gran parte le incertezze del periodo precedente e, nelle prime tragedie, al di là della satira e della diagnosi della propria crisi giovanile, aveva già cominciato ad esprimere il suo mondo poetico, i motivi piú profondi del suo animo.


1 Vita cit., I, p. 135.

2 Piú tardi l’Alfieri satireggiò la massoneria, come tutte le forme dell’«Antireligionería» e la «Filantropinería» (satire VII e XI), nel suo carattere illuministico, e la condannò come «impostura» accomunandola ad ogni altra setta e ad ogni interessata superstizione che abbia per scopo vero il dominio degli uomini e il loro sfruttamento a proprio vantaggio (satira XV: «Frati, Fratocci e Fraterni-genía / Muratoria, Gesuitica, o Gallesca» ecc., vv. 1-2; in Scritti politici e morali, III cit., p. 184). Sull’appartenenza dell’Alfieri alla massoneria si veda il volume di C. Francovich, Storia della massoneria in Italia. Dalle origini alla Rivoluzione francese, Firenze, La Nuova Italia, 1974.

3 Si conservano anche di quel periodo due Lettres à un Sansguignon, notevoli (specie la seconda) per il gusto caricaturale e per l’indicazione di quella «adunanza» come sospetta ai benpensanti torinesi, ai cortigiani, ai militari (che non san comprendere «comment on préféroit la douce harmonie, d’une éloquence raisonnable, au bruit turbulent du canon, ou d’une trompette»), agli ecclesiastici paurosi che i membri della società si occupassero di religione e temendo «pas tant pour la religion, que pour eux mêmes» (Scritti politici e morali, III cit., p. 61).

4 Vita cit., I, p. 137.

5 Cosí un nobile di corte dichiara che non conobbe amore e amicizia perché il padre, creandolo, non l’aveva fornito del cuore: «Le deffaut de cette pièce essentielle, me défendit de pratiquer des vertus, qui m’auroient, peut-être, rendu un homme, comme il faut, mais je me gardais bien de la redemander, à mon pére, car je sçus, par le Chirurgien, qui avoit embaumé mon grand père, que notre famille se soutenoit sans cœur, depuis plus de deux siècles, et cela même sans étonner le pubblic, parce-que, pour les emplois, que nous pratiquions, il n’estoit point nécessaire, et peut-être inutile, d’en avoir» (Esquisse du Jugement Universel, in Scritti politici e morali, III cit., p. 19).

6 Ivi, pp. 16-17.

7 Tendresse e mélancolie sono le parole che la sensibilità preromantica francese offriva all’Alfieri attraverso Prévost, e in questo senso nei Giornali si può constatare rispetto all’Esquisse un ampliarsi delle possibilità espressive alfieriane per mezzo dei moduli romanzesco-patetici che si aggiungono a quelli di tipo satirico voltairiano, con effetti piú vari rispetto all’Esquisse e con risultati piú complessi e adeguati (per quanto sempre in una certa attenuazione di quanto di piú generico c’era già allora nell’animo alfieriano) ad esprimere la complessa situazione di crisi del giovane scrittore. La ricerca stilistica è cosí piú complessa e dà luogo ad un alternarsi e fondersi dei due procedimenti fondamentali: l’analisi ad effetto sensibile-patetico e autocritico e la narrazione veloce con punte fra indignate e satiriche, con una prosa nel suo complesso piú ricca di sfumature pur nel suo taglio sempre rapido e lucido.

8 Giornali, Giovedí, li 17 Aprile; in Vita cit., II, p. 239.

9 Lunedí 2 Giugno; ivi, pp. 249-250.

10 Ivi, pp. 245-246.

11 Son. 167, v. 14; Rime cit., p. 142.